Chi ha detto che per scrivere bisogna avere una vita piena di amici, cocktail e giri in barca? Giuseppe Ungaretti, nato il 1° giugno 1888 ad Alessandria d’Egitto, ci ha dimostrato esattamente il contrario. Con il suo stile asciutto, a volte tagliente come una lama ben affilata, ha saputo raccontare la solitudine come pochi altri. Non quella patinata da film francese, ma quella vera, vissuta, scomoda. Quella che ti costringe a guardarti dentro, e a volte non ti piace nemmeno quello che trovi.

Giuseppe Ungaretti: tra guerra, versi e silenzi rumorosi
Ungaretti non è stato un poeta da salotto, né uno da pettegolezzi con tè e pasticcini. Era un uomo spartano, che si è portato dietro la sabbia del deserto (letteralmente, visto che è nato in Egitto) e le ferite della trincea. Durante la Prima guerra mondiale combatte come fante sul Carso e lì, tra fango e bombe, scrive versi che sembrano scavati nella roccia: brevi, essenziali, come urla soffocate.
In quel contesto la solitudine non era una scelta, ma una condanna. Eppure Ungaretti la trasforma in poesia, in qualcosa di universale. Per lui la solitudine è il punto di partenza per capire sé stesso e il mondo. È un luogo buio, sì, ma dove le parole possono accendersi come stelle.
“Mi illumino d’immenso”: quando due parole bastano
Questa poesia è la prova che Ungaretti aveva capito tutto. “Mi illumino d’immenso” non è solo un verso geniale, è un manifesto esistenziale. Scritto nel 1917, in trincea, esprime in poche parole un’intera esplosione interiore.
La solitudine per Ungaretti non è il vuoto, ma la possibilità dell’infinito. Sembra un paradosso, ma è proprio nel sentirsi piccolo e solo che l’uomo si apre al mistero dell’universo. Certo, detta così sembra filosofia da bar. Ma quando lo scrive lui, funziona eccome.
L’uomo dietro il poeta: malinconico, sì, ma con stile
Ungaretti non era un chiacchierone. E non era nemmeno l’anima della festa. La sua vita è stata segnata da lutti, guerre, dolori personali (la morte del figlio Antonietto fu una ferita che non si rimarginò mai). Ma non era un pessimista cronico, bensì un uomo che cercava – anche nei momenti peggiori – un barlume di senso.
Nel suo rapporto con la solitudine c’è qualcosa di profondamente umano. Non la cerca, ma la accetta. Non la ama, ma la rispetta. È una compagna silenziosa che lo segue ovunque: nei campi di battaglia, tra le righe dei suoi versi, nei suoi ritorni a casa mai davvero pacifici.
Ungaretti e la solitudine: confessioni senza fronzoli
Uno dei testi più espliciti sul suo rapporto con la solitudine è Vita d’un uomo, raccolta poetica che è quasi un’autobiografia in versi. Qui la solitudine è raccontata come parte costitutiva dell’esistenza: c’è, non puoi evitarla, e spesso ti insegna più lei di mille discorsi.
Ne In memori”, una poesia dedicata all’amico Moammed Sceab, suicida a Parigi, la solitudine diventa tragedia. Ungaretti scrive con dolore e lucidità, ricordando un uomo che non ha retto il peso dell’isolamento, dell’essere straniero ovunque. Una confessione amara, che svela quanto per lui la solitudine potesse anche essere pericolosa, se non accompagnata dalla poesia.
Una lezione da portare con noi (senza diventare eremiti)
Oggi, che siamo sempre connessi ma raramente davvero in contatto, Ungaretti ci ricorda che la solitudine non è per forza un male. Anzi, a volte è necessaria per capire chi siamo, per fermarci, per ascoltarci.
Certo, non serve andare al fronte per scrivere una poesia. Ma prendersi un momento di silenzio ogni tanto, smettere di riempire il vuoto con rumore inutile, forse ci farebbe bene. Ungaretti lo ha fatto, con dolore ma anche con dignità. E i suoi versi continuano a parlarci, proprio perché nascono da quella solitudine che tutti, prima o poi, ci troviamo ad affrontare.
In fondo, come scriveva lui stesso:
“E subito riprende / il viaggio / come / dopo il naufragio / un superstite / lupo di mare.”
Non si esce mai davvero dalla solitudine. Ma si può imparare a navigarla. Anche con poche parole.
Frasi di Giuseppe Ungaretti sulla solitudine
- “Ma le mie urla / feriscono / come fulmini / la campana fioca / del cielo / Sprofondano / impaurite.”
- “A solitudine orrendo tu presti / Il potere di corse dentro l’Eden, / Amata donatrice.”
- “E solitudine che fa spavento / Offri il miracolo di giorni liberi.”
- “Di queste case / non è rimasto che qualche brandello di muro / Di tanti / che mi corrispondevano / non è rimasto neppure tanto / Ma nel mio cuore / nessuna croce manca / È il mio cuore / il paese più straziato.”
- “Disperazione che incessante aumenta / la vita non mi è più, / arrestata in fondo alla gola, / che una roccia di gridi.”
- “La morte / si sconta / vivendo.”
- “Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie.”
- “Non mi lasciare, resta, sofferenza!“
- “Sono un poeta / un grido unanime / sono un grumo di sogni.”
- “L’uomo, monotono universo, / crede allargarsi i beni / e dalle sue mani febbrili / non escono senza fine che limiti.”
- “La parola è impotente, la parola non riuscirà mai a dare il segreto che è in noi, mai. Lo avvicina.”
- “Non sono il poeta dell’abbandono alle delizie del sentimento, sono uno abituato a lottare.”
- “Luna, / piuma di cielo, / così velina, / arida, / trasporti il murmure d’anime spoglie?”
- “Di me rammento che esultavo amandoti, / Ed eccomi perduto / In infinito delle notti.”
- “Sono vecchio. Ho meno resistenza fisica, quella del ginocchio è stata un’umiliazione fisica, anche se adesso sta guarendo bene.”
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