Concita De Gregorio non è solo una giornalista e scrittrice: è una donna che ha attraversato ferite reali – nel fisico, nella mente, nella vita – e che, con le parole, ha saputo trasformarle in voce comune. Per lei le “ferite” non sono tabù da nascondere, ma crepe da accettare, da condividere, da tenere a vista, come cicatrici che dicono chi siamo. In un mondo che ci chiede di mostrare sempre “perfetti”, lei ricorda che siamo tutti un po’ “rotti”, e che in quella rottura c’è un valore, un’umanità condivisa.

“Siamo tutti danneggiati”: riconoscere la fragilità comune
In un recente articolo per la Repubblica, Concita De Gregorio scrive:
“Siamo tutti danneggiati, da qualche parte: abbiamo tutti un guasto, una ferita. Siamo tutti educati a non mostrarla.”
È una frase-spallata contro l’ipocrisia: ci ricorda che dietro ogni persona c’è un vissuto, una sofferenza, un inciampo. La “ferita” non è un marchio di vergogna, ma la traccia del tempo che passa, delle esperienze belle o brutte, scelte o imposte. E quella traccia esiste in ciascuno di noi.
Concita De Gregorio non parla di eccezioni, né di “altri”: parla di noi. Di me, di te, di chiunque. E lo fa con generosità – come quando descrive l’esperienza di chi affronta la malattia mentale, il dolore, la paura – eppure trova la forza di parlarne, senza filtri, senza vergogna.
Accettare che “siamo tutti danneggiati” significa fare un gesto rivoluzionario: smettere di giudicare se stessi e gli altri per le cicatrici, e iniziare a guardare cosa c’è dopo la frattura: la resilienza, la sincerità, la capacità di rialzarsi.
Ferite visibili e invisibili: quando la vita ci mette alla prova
Per Concita De Gregorio, le ferite assumono tante forme. A volte sono malattie, come il tumore che ha affrontato, che ha cambiato il suo tempo, il suo corpo, la sua percezione del vivere. Di quel periodo ha detto:
“Mi sono fermata perché il mio corpo si era guastato e mi sono trovata di fronte alla possibilità che non si aggiustasse più.”
Ma le ferite non sono sempre così “evidenti”: possono essere ansie, assenze, amputazioni affettive, dolori del passato. Sono ciò che resta e ciò che, in un modo o nell’altro, ci accompagna. E spesso, nella quotidianità, nella fretta, nel dover “andare avanti”, cerchiamo di ignorarle, di nasconderle, di fingere che non esistano.
Concita De Gregorio, invece, chiede di guardarle in faccia. Di riconoscerle. Di dare loro un nome, un senso. Perché solo così possono diventare parte di noi, senza pesare segretamente come macigni. E soprattutto, perché possono diventare un ponte verso gli altri.
Condividere le ferite: l’antidoto all’isolamento
Quando scrive che “siamo tutti danneggiati”, Concita De Gregorio non si limita a diagnosticare un male: ci offre una cura fatta di parole, di verità, di comunità. In un passaggio davvero potente, osserva che quelle storie di dolore, di fragilità, di sofferenza – spesso taciute per pudore o paura – sono ciò che può unirci:
“Non siamo esseri guariti, guaribili. Abbiamo tutti un guasto che si porta con più o meno disinvoltura.”
Condividere una ferita non vuol dire sventolarla come un trofeo, ma permettere a qualcun altro di sapere che anche lui può averla. Che non è solo. Che non è “difettoso”, ma semplicemente umano. E in quell’umano, nella nostra vulnerabilità comune, c’è qualcosa di forte. C’è la possibilità di costruire empatia, solidarietà, autenticità. C’è la libertà di dire: “ecco, ho una cicatrice, non mi nascondo, ma non temo neanche il tuo sguardo”.
In un mondo dove spesso si vince a galloni di perfezione, Concita De Gregorio ci ricorda che la bellezza – la vera bellezza – nasce anche dalle crepe, dalle imperfezioni, da ciò che abbiamo attraversato.
Perché serve ridefinire la normalità
Il messaggio di Concita De Gregorio è anche un monito gentile: la “normalità” non è non avere ferite; è saper conviverci, con onestà, con rispetto per sé e per gli altri. Considerare la fragilità come un tabù significa negare la complessità dell’essere umani.
Quando accettiamo che ognuno ha un “guasto, una ferita”, smettiamo di giudicare e iniziamo a guardare senza pregiudizi, a comprendere senza fretta, a tendere la mano invece che puntare il dito. E forse, chissà, in quella accettazione collettiva, c’è la possibilità di vivere con un po’ di leggerezza in più, non perché il dolore scompare, ma perché condiviso si trasforma.
La fragilità non è una colpa
Concita De Gregorio ci insegna una cosa che molti fingono di non sapere: che la fragilità non è una colpa. Che le ferite non ci squalificano, ma ci ricordano chi siamo. Che non c’è niente di inconfessabile in un cuore che sanguina, in un ricordo che brucia, in un’assenza che pesa. E che la forza – quella vera – non sta nel nascondere le crepe, ma nel trasformarle in piste per gli altri: per chi si riconosce, per chi cerca compagnia, per chi ha paura di restare solo. Perché, come dice Concita De Gregorio, siamo tutti un po’ danneggiati. E forse è proprio in quella comunanza di crepe che possiamo diventare migliori.
Frasi di Concita De Gregorio sulle ferite
- “Siamo tutti forti delle nostre ferite. Solo chi cade si rialza e sa con esattezza il valore della posizione eretta. Essere verticale.”
- “Siamo tutti danneggiati, da qualche parte: abbiamo tutti un guasto, una ferita. Siamo tutti educati a non mostrarla.”
- “Ci si vergogna della sconfitta. Ci si vergogna di subire una violenza, di essere colpiti. Le ferite si vogliono nascondere. Ma chi si è già rotto – come quei vasi giapponesi incollati con i fili d’oro – è più forte di chi non si è mai rotto.”
- “Ogni minuto della vita gira attorno a qualcosa che non c’è più perché qualcos’altro possa accadere.”
- “C’è bisogno di essere felici per tenere testa a questo dolore inconcepibile. C’è bisogno di paura per avere coraggio. È l’assenza la vera misura della presenza. Il calibro del suo valore e del suo potere.”
- “Dimenticare è impossibile, ma vivere si deve perché la natura ha deciso così: il dolore da solo non uccide. L’assenza di un amore si ripara con altro amore.”
- “Ogni singola parola che ci è stata detta, anche quella smozzicata o solo intuita, ci ha aiutato tantissimo. Il dolore se non è condiviso diventa rabbia e disperazione.”
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